Con un palmares invidiabile impresso in locandina arriva direttamente da Toronto e Cannes, These Final Hours è la prima ufficiale opera di lungometraggio dell’australiano Zak Hiditich (dopo il premiato cortometraggio Transmission), che narra l’epopea di James, un uomo dal turbolento passato, deve fare i conti con tutte le persone che hanno popolato la sua esistenza nelle ultime 12 ore di vita dell’essere umano, a cominciare da Zoe, la ragazza che ama e che gli sta per donare un figlio. Decide però di abbandonarla e di raggiungere Vicky, la sua fidanzata.
Durante il percorso s’imbatte nella furia omicida dell’uomo e salva una bambina rapita che deve raggiungere il padre prima della fine.
James si ritrova così a vestire i panni di una figura paterna provvisoria e, di conseguenza, the final hours entra a far parte di quella schiera di film che mirano a raccontare un paese attraverso storie fantascientifiche ( vedi interstellar ) o di azione ( the purge 1 e 2 ) ma che toccano nel profondo l’ampio spettro politico e sociale, tanto che se Hilditch poteva limitarsi a mostrare i suoi personaggi che girovagano in una umanità ormai naufragata, di quest’ultima ne sottolinea anche la violenza e, di conseguenza, la pazzia, al punto tale da mettere lo spettatore sul punto di chiedersi se veramente dobbiamo compiangere la fine alla quale l’umanità è destinata in quest’opera. Ma la rabbia di una nazione si dirama con virulenza negli spettatori in sala, lasciandoci talvolta basiti, ma ciò che manca al regista sono la forza ed il coraggio di marchiare col fuoco la sua opera con la targa australiana, scrutando ogni scena di violenza con molta timidezza e, nel momento clou, far intervenire la formula americana: musica heavy-rock a balla per mascherare la parte visiva, al contrario di alcuni suoi colleghi come Michod o Kurzel ( the snowtown murder ) che lasciano che siano le macchie di sangue, i rabbiosi respiri degli attori e le polverose strade a raccontare.
Inoltre sono opinabili le scelte effettuate in fase di color correction, abbinando al film una fotografia molto you tube style, senza però risultare mai fastidiosa. Insomma, l’ennesimo film in cui un uomo, che indossa la maschera di un intera nazione, imbocca la via del riscatto e questionando la platonica domanda su chi sia l’uomo giusto: il film ne propone un modello, peccato che lo diventi quando è costretto alla redenzione, e qui il film pone il grande punto interrogativo, solo in maniera molto più soave e commerciale rispetto al capolavoro di VonTrier.
MOMENTO CULT: l’uccisione di una donna affetta da stupefacenti durante la festa ed il finale.
Al cinema dal 20 novembre.
Alessandro Bertoncini
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