Anima e Colori di un villaggio che ha molto da insegnare

In un piccolo centro della Birmania, si percepisce chiaramente il bisogno di evoluzione e lo slancio verso un futuro che noi, nel nostro progresso, non abbiamo ancora raggiunto.

Presentato quest’anno in concorso nella sezione Doc al Torino Film Festival e girato dai tre registi Nicola Grignani, Valeria Testagrossa e Andrea Zambella, Irrawaddy Mon Amour é un piccolo documentario di valore, oltre che per le sue effettive qualità, per quello che rappresenta.
I tre registi, già autori di Striplife, nel 2013, che avevano girato sulla Striscia di Gaza, questa volta si spostano in Birmania, presentandoci uno scorcio della vita di un piccolo villaggio costruito sulle rive del fiume Irrawaddy, chiamato Kyauc Myaung.
Una delle virtù dell’opera risiede nella capacità della regia, di introdurci nella realtà del piccolo centro, a poco a poco, svelando gradualmente gli elementi cardine che la costruiscono.
Nella prima parte del film infatti, ci viene presentato un paesino semplice e poco evoluto, dove ci si lava i capelli nel fiume e i denti all’aperto, nel quale spicca la presenza di un congruo numero di omosessuali che vivono la loro quotidianità abbastanza serenamente, non solo senza nascondere e condividendo senza vergogna con il resto della comunità il loro orientamento sessuale, ma indossando senza che nessuno lo consideri eccentrico o ancora meno fastidioso, abiti femminili, e svolgendo lavori di responsabilità in cui sono considerati dei punti di riferimento assolutamente affidabili; ne é un esempio particolarmente rilevante il maestro che si occupa di bambini in età corrispondente a quella delle scuole elementari.
Una quotidianità alla quale abbiamo accesso grazie alle discrete riprese dei tre registi, che la seguono abilmente rendendocene partecipi, senza intruderla.
E di sicuro da italiani, vedere un maestro vestito in gonna e giacca, truccato, mentre ripete alla lavagna con i suoi bambini, che lo seguono e gli vengono affidati senza riserbo alcuno, oltre ad essere un esempio, é una boccata d’aria fresca, che ci costringe a fare i conti col fatto che un piccolo paesino teoricamente a un livello di evoluzione e progresso estremamente inferiore al nostro, nel quale la “Lega per la democrazia” è una capanna all’aperto in cui una manciata di persone si siedono in cerchio a gambe incrociate per mettere in discussione la loro costituzione, in realtà ha molto da insegnarci.
E se già tutto questo colpisce nella prima parte del breve documentario, spiazza ulteriormente quando a un certo punto, a partire da un evento straordinario, la decisione di celebrare un matrimonio gay tra due ragazzi innamorati, probabilmente uno dei primi in Birmania, si intuisce che tutto questo accade in Birmania, un paese dove l’omosessualità è un reato, e in un piccolo villaggio al centro di questo paese, attorniato da tanti altri in cui al contrario, l’essere gay è fortemente discriminato.
Un piccolo centro diventato il rifugio di tanti omosessuali fuggiti dai villaggi circostanti, da cui sono stati cacciati e nei quali sono stati umiliati e addirittura bastonati.
Un luogo divenuto simbolo della lotta per i diritti civili e contro la discriminazione.
Dove è curioso come la religione accetti e sostenga l’omosessualità, mentre è la legge a non tollerarla e a perseguirla.
Commovente la forza d’animo con la quale gli abitanti del villaggio si stringono intorno ai due ragazzi per garantirgli di portare avanti il loro sogno, nonostante corrano dei rischi non indifferenti, tra i quali una reazione militare all’evento.
Così, un altro ragazzo, rifugiatosi nel villaggio dopo essere stato rifiutato dalla famiglia, si occupa degli inviti e del trucco, un attivista nasconde, dandogli ospitalità a casa propria, un amico proveniente da un altro villaggio, dei monaci buddisti li sostengono e danno la loro benedizione, le donne cucinano, perfino i bambini partecipano, ognuno fa la sua parte per offrire il proprio contributo a una causa che assume un significato enorme e che ha un altrettanto enorme valore.
Un piccolo centro prezioso in cui si ha il coraggio di essere sé stessi e di vivere per ciò che si é, a prescindere dalle conseguenze, dove tutti sono pronti non solo ad accettarlo, ma a sostenerlo.
Dove il termine tolleranza é riduttivo, non è contemplato, mentre si è molto più in linea con termini come condivisione, convivenza, uguaglianza.
L’aspetto più caratteristico ed efficace di questo lavoro, è l’attenzione verso la costante presenza, all’interno del villaggio di colori accesi e vivi, sia nelle decorazioni che nel trucco, negli ornamenti e nei rituali, negli incontri collettivi e negli abiti.
Colori che sembrano rappresentare, esaltare e contribuire attivamente a tenere viva la forza d’animo con la quale queste persone portano avanti le loro istanze, il loro essere, con un coraggio e un entusiasmo che non coprono -perché sono più che evidenti nella grande espressività dei loro visi, che lascia trasparire le ombre oltre che donare sorrisi luminosi- le sofferenze e le umiliazioni che hanno dovuto sopportare.
Una forza potente, fatta di sorrisi, festoni, palloncini, paure, e un cuore enorme che batte senza titubanza.
Molto bella anche la fotografia, che alterna ai suddetti colori accesi, la ripresa dei rituali e dei costumi tipici del villaggio e bellissime immagini più tenui e poetiche che stemperano l’insieme, rendendolo più omogeneo, tra le quali, toccante e suggestiva, si distingue quella delle candele accese affidate al fiume Irrawaddy al crepuscolo.
Fiume che é metafora dichiarate della loro linfa vitale, del loro slancio:
“ Il nostro amore è come l’Irrawaddy, un fiume che non smette mai di scorrere, travolge tutto.”

Roberta Girau

 

You must be logged in to post a comment Login

Leave a Reply