Sono le 9 di ieri mattina, aspetto di sapere l’orario in cui poter chiamare Antonio Augugliaro, uno dei registi del film Io sto con la sposa. Invece, dopo una serie di messaggi e caffè, scopro che è in treno verso Roma e non sarà così facile prendere la linea. La giornata trascorre e quando troviamo il momento opportuno, lui si trova in aeroporto. Ha un’agenda piena di impegni, effetto di un successo tutt’altro che scontato. Il suo documentario, girato insieme al giornalista Gabriele Del Grande e allo scrittore Khaled Soliman Al Nassiry, è un piccolo miracolo all’italiana e prima ancora un atto di disobbedienza civile. I protagonisti sono 5 migranti, 2 palestinesi e 3 siriani, in cerca di asilo politico e per questo in viaggio attraverso le frontiere europee, da Milano a Malmo, in Svezia. A scortarli una sposa e i tre registi. Ad attenderli la speranza di un nuovo inizio.
Con chi stavi quando è iniziata quest’avventura?
“Sempre dalla parte della sposa, idealmente mi sono innamorato del progetto. Sono stato coinvolto dopo che Gabriele e Khaled hanno incontrato alla stazione di Garibaldi Abdallah Sallam, un superstite del naufragio di Lampedusa del 11 ottobre 2013. Dal suo racconto, oltre alla frustrazione, è nata l’esigenza di fare qualcosa. All’inizio è stata la battuta di una cena, ma poi l’immagine di una sposa che guida un corteo nuziale attraverso le frontiere europee mi ha catturato. Così abbiamo organizzato il viaggio. Con noi sono partiti cinque richiedenti asilo: Abdallah, lo sposo, MC Manar e suo padre, entrambi palestinesi, e Ahmed Abed e Mona Al Ghabr, una coppia siriana in fuga da un centro di accoglienza. La sposa, Tasneem Fared, è un’amica di Khaled, anche lei è siriana e vive in Spagna.”
Il soggetto è nato al tavolino di un bar e la storia si è scritta da sola. Come si gira un film in corsa?
“Non ne ho idea. [ride] Una volta partiti, il rischio era di non sapere da dove cominciare. L’unica certezza era il percorso, le tappe che avremmo effettuato, e ci siamo domandati quale potesse essere il modo migliore per fare uscire i personaggi nelle varie situazioni. Quindi abbiamo stilato una sorta di sceneggiatura, un filo conduttore che potesse scandire i vari momenti del viaggio. Volevamo creare una formula differente dal classico documentario, senza le interviste in camera e una narrazione pietista.”
E l’attrezzatura?
“Non siamo partiti da soli, con noi c’era anche una mini troupe. Il fonico, Tommaso Barbaro, il direttore della fotografia, Gianni Bonardi, il fotografo di scena, Marco Garofalo, e altri operatori. Abbiamo usato tre C300 HD con un ottica cinematografica. Una camera per macchina quando eravamo in movimento e lo stretto necessario per creare un piazzamento nelle scene all’aperto. Una per l’inquadratura generale, due per i primi piani, i campi e i contro campi.”
Ci sono elementi di finzione nel film?
“Uno solo. Eravamo appena arrivati a Copenaghen e ci siamo fermati in riva al mare. La sposa, Tasneem, ha telefonato alla madre, ancora bloccata in un campo profughi tra Siria e Turchia. La conversazione l’ha molto rattristata e per affrontare il momento l’ho sentita cantare una canzone. Le ho chiesto se voleva farlo davanti alla telecamera e lei ha accettato. Il resto è tutto in presa diretta. Il concerto di MC Manar a Marsiglia è improvvisato e altrettanto spontanea è la sequenza in montagna in cui Abdallah scrive sui muri del rifugio i nomi dei suoi compagni di viaggio affogati a largo di Lampedusa. Nessuno della troupe parlava arabo e a volte era persino difficile comprendere cosa stesse succedendo.”
Quali tappe vi hanno portato dal soggiorno di Gabriele all’uscita in sala?
“Quando siamo rientrati a Milano eravamo contenti dell’impresa compiuta, ma non pensavamo di avere un film in mano. Invece abbiamo iniziato a sbobinare il girato e ci siamo resi conto che c’era molto materiale su cui lavorare. A mancare erano i soldi perché a metà dell’opera i nostri risparmi erano già finiti. Da qui l’idea del crowdfunding, che è stata una vera cassa di risonanza per il film. In poco tempo si è creata una rete di persone che hanno creduto nel progetto e messo insieme circa 100 mila euro. Anche facebook ci ha portato molta visibilità, la nostra pagina ha più di 15 mila contatti. Grazie a loro abbiamo terminato di montare in tempo per Venezia.”
E dopo il lido, il cinema..
“Sì. Il nostro produttore associato, Marco Visalberghi – DocLab, ha concretizzato questo sogno. È stato lui a trovare il distributore italiano, Cineama. Ora sta curando delle trattative con la TV, con vari distributori esteri e ci porterà all’ IDFA (Documentary Film Festival) di Amsterdam. Per noi che crediamo in un mondo senza frontiere arrivare in Europa è molto importante. Ti svelo un segreto.. Io sto con la sposa è un film internazionale, ma apolide perché non abbiamo mai fatto una dichiarazione ufficiale di inizio attività. Un problema burocratico per cui lo Stato italiano ci garantisce l’origine ma non la nazionalità. E pensare che ci hanno già offerto quella palestinese!”
Io sto con la sposa ha messo insieme 2.617 piccoli produttori, mentre per la distribuzione dal basso come funziona?
“Chiunque lo desidera può prenotare il film (http://www.iostoconlasposa.com/bulletin/it/proiezioni) e proiettarlo dove vuole. La nostra idea è di creare una massa critica, un dibattito che non si esaurisca al botteghino. Ogni realtà può organizzarsi come preferisce, abbiamo ricevuto richieste dalle scuole, dai singoli cittadini e perfino da un intero quartiere. Ho appena saputo che un gruppo di parlamentari ha in programma una proiezione privata in una saletta eventi dell’Europarlamento a Bruxelles. Forse riusciremo davvero a cambiare qualcosa.”
Zelia Zbogar
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