Sono seduta al tavolino di un bar in corso Buenos Aires, a Milano. È una mattina fredda e le persone camminano in fretta, un po’ per la temperatura e un po’ perché di lunedì non c’è mai tempo. Le guardo passare attraverso la vetrina, mentre aspetto Enrico Maisto. La sua opera prima ha vinto il Premio Aprile al recente Milano FF e lui, classe 1988, è stato il regista più giovane in concorso nella sezione lungometraggi. Comandante approfondisce il rapporto tra il padre, Francesco Maisto, e un vecchio amico di famiglia, Felice Esposito. I due si sono conosciuti durante gli anni di piombo al Mulino doppio, la trattoria milanese che veniva frequentata dai sostenitori della sinistra più radicale. Il primo lavorava come giudice di sorveglianza al carcere di San Vittore, mentre il secondo era un militante di Lotta Continua. L’indagine si muove tra due dimensioni, pubblica e privata, e rievoca un’epoca di passioni politiche, di instabilità e di terrorismo per arrivare a raccontare qualcosa di diverso, una storia di amicizia. Eccolo, è arrivato..
Nei 4 anni di lavorazione Comandante ha subito diverse trasformazioni. Da quale idea eri partito?
“È nato come un film sul personaggio di Felice. Da bambino i suoi viaggi e i suoi ideali rivoluzionari mi facevano pensare al protagonista di un libro di Marquez. Volevo seguirlo e ricreare quest’immaginario romanzesco. Abbiamo iniziato a girare un ibrido tra fiction e documentario in cui un mio alter ego recitava al suo fianco. Io non avevo intenzione di prendere parte al film, ma con questo espediente potevo portare avanti le mie istanze. Raccontare la vita di Felice in parallelo alle impressioni romantiche che da sempre mi aveva suscitato.”
Quando hai cambiato il soggetto?
“Nell’estate del 2011. Felice non voleva aprirsi con l’attore che lo affiancava, non era spontaneo. Così abbiamo riflettuto insieme su come andare avanti a girare per non sprecare un anno di riprese. In quell’occasione, tra i vari discorsi fatti, ho scoperto una vicenda che non conoscevo sul passato di mio padre. Anche lui era sulla lista nera dei terroristi e non venne ucciso perché Felice si intromise nei piani dei suoi compagni estremisti. Da qui il film ha iniziato a prendere un’altra direzione.”
E tuo padre è entrato in scena…
“No. Non è stato un passaggio immediato, non riuscivo e dargli una collocazione. Subito dopo il racconto ho girato la prima intervista con mio padre, ma poi l’ho accantonata. Continuavo a voler girare un documentario di osservazione solo con Felice. Ho ripreso in considerazione l’idea di coinvolgere mio padre lo scorso inverno ed è stato fondamentale. Quella prima prova compare all’inizio del film, quando lo si vede rimettere le mani nel suo archivio e fare ordine trai vecchi ritagli di giornale e i documenti.”
Volevi tutelarlo?
“Non solo. Nel momento in cui scopri una parte ignota del passato di chi ti sta vicino ti poni delle domande. “Se mi rivela qualcosa che non voglio sapere?” Prima di tutto ho dovuto affrontare questa paura. Poi ho mediato con il mio istinto di protezione, verso mio padre e verso Felice. Ho misurato ogni frase perché in un contesto di confidenza può capitare di non dare il giusto peso alle parole e in fase di montaggio sono stato attentissimo a non snaturare la volontà dei personaggi. Ma per lo più erano mie paure. Entrambi credono fermamente in quel che dicono e difficilmente possono pentirsene.”
Hai detto che inizialmente non volevi comparire nel film, ma alla fine ci sei. Come mai?
“È stata una scelta in linea con l’evoluzione del lavoro. All’inizio volevo nascondermi, ma avevo in mente un progetto differente in cui il mio ruolo di regista mi impediva di filmare e parlare contemporaneamente. Ecco il perché dell’alter ego. Poi ho lavorato solo con Felice limitandomi a due brevi interventi all’inizio e alla fine del doc. Ma riprendere una figura così cara in un modo tanto distante era un paradosso. L’intervento di Chiara Brambilla, che ha scritto la versione definitiva del film, è stato decisivo. Mi ha spronato a prendere una posizione più diretta.”
Quale è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato?
“Selezionare il materiale e in 4 anni ne ho raccolto moltissimo [ride]. Comandante è un film in cui una parola in più o uno in meno fa una grande differenza. Ho dovuto trovare un compromesso tra etica e estetica. Anche capire i meccanismi del documentario rispetto alla fiction non è stato facile. Al liceo ho girato 3 lungometraggi di finzione, rimasti inediti, in cui mi ero abituato a lavorare diversamente.”
E la produzione?
“Ho utilizzato i miei risparmi e ricevuto delle donazioni, una sorta di mini crowd funding, da parte di persone più o meno conosciute interessate al progetto. Ovviamente senza il sostegno dei miei collaboratori (due fonici in presa diretta, tre montatrici e Chiara Brambilla) che hanno lavorato a costo zero, non sarei mai riuscito a realizzare il film. Ora stiamo cercando uno sbocco all’estero e una piccola distribuzione italiana. Ma tutto si muove con molta lentezza.”
Comandante tratta una vicenda intima e un momento complicato della storia italiana. A chi si rivolge?
“Forse ho sbagliato, ma era il mio film nel cassetto e non mi sono posto questa domanda. O meglio, Comandante non è un documentario politico che vuole dare delle informazioni, e quindi non parla a un pubblico preciso, interessato all’argomento. Al centro del film c’è il rapporto tra due amici e tra padre-figlio (come suggerisce la voice over). Sul piano umano è condivisibile da tutti. Nella versione internazionale abbiamo preparato un prologo più completo che dia idea del contesto delicato in cui si svolge la storia. C’è un cappello più ampio e qualche immagine di repertorio, ma sono solo suggestioni.”
Zelia Zbogar
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