Carlo Verdone a fine anni ’70 è sulla cresta dell’onda nazionalpopolare, la sua partecipazione alla trasmissione RAI “No Stop” gli regala un successo clamoroso, le sue iconiche macchiette ritraggono uno spaccato sociale di fortissimo impatto. Si ride, tanto, per non guardarci troppo dentro e scoprirci esattamente uguali ad esse. Nel 1980, prodotto da Sergio Leone firma la sua opera prima cinematografica, Un sacco bello. Il film riprende 3 dei caratteri portati alla ribalta da Verdone ma non si limita, come spesso accade, a diluirne il brodo per arrivare a due ore di film. No qui la cosa si fa più seria, più complessa ed in una Roma ferragostana, estraniata ed estraniante, Verdone mette sulla scena 3 essere umani diversi eppur simili: il coatto che organizza con l’amico di cui sa ben poco un viaggio con palesi mire sessuali a Cracovia, un hippy rintronato che il padre (un Mario Brega da tramandare ai posteri) ritrova per caso e cerca di convincere a tornare casa con l’aiuto di preti, professori e parenti, con esiti alquanto discutibili ed un ingenuo ragazzo, succube della madre, che incontra ed aiuta una ragazza spagnola in difficoltà, finendo per invaghirsene.
Un sacco bello è, a mio parere, il film di Verdone più riuscito, scevro da ogni eccesso caricaturale che troppo spesso è montato nella filmografia che lo seguì e, soprattutto, misurato ed attento a ritrarre con efficacia i tic di una società di furbi, chiaccheroni, ingenui e mammoni. Nel quale anche l’amore pare o qualcosa da rubacchiare (il coatto con mire da playboy al cacio e pepe), il marito modello che vorrebbe ma non può e l’ingenuo che si risveglia bruscamente dinanzi agli ammiccamenti della straniera. Il film è delizioso, divertente, amaro, pronipote di una cinematografica italiana di spessore altissimo (la citazione agostana è un omaggio sfacciato ad Il Sorpasso) che, ahinoi, si è ridotta agli episodi annuali e natalizi di comici televisivi alla ricerca di un posto al sole.
Marcello Papaleo
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