Era il 1999 e paiono passati 40 anni. Era il 1999 appunto, quando il regista britannico Sam Mendes, alla sua opera prima dopo anni di successi teatrali, si fece conoscere al mondo con American Beauty. Rivederlo, dopo un po’ di anni, ha fatto sì che io riuscissi a delineare meglio il mio rapporto con esso. Cosa è quindi, a mio avviso, un melodramma yankee come American Beauty? Seguitemi.
Il film di Mendes, come tutti gli altri che verranno, sono caratterizzati da un impeccabile costruzione visiva, una regia elegante ed avvolgente. Non troverete uno e dico uno film di del regista britannico (da Era mio padre sino ad arrivare al suo primo 007, Skyfall) nel quale possiate trovare o dire che vi sia qualcosa fuori posto. American Beauty racconta la storia di un uomo, Lester Burnham (interpretato da quel gigante che è Kevin Spacey), al calare della mezza età, con un lavoro che è stanco di fare, una matrimonio di plastica, una figlia con il quale la comunicazione si ferma al “passami il sale” e, fondamentalmente, una vita che ha vissuto il suo momento di gioia ed ora? Cosa resta? Poco o nulla. Il desiderio di ribellione, di sparigliare ancora le carte, più per vedere l’effetto che fa che, forse, perché ci crede sul serio. Chissà. Tutt’attorno i personaggi che dicevamo prima, moglie, figlia, un vicino pusher e videoamatore (oltre che innamorato di sua figlia), suo padre marines con qualche problema di controllo, la migliore amica della figlia che diviene l’oggetto dei suoi repressi appetiti sessuali e tutt’attorno? La bellezza annacquata dalla quotidianità, dalla routine, dal fatto che ci dimentichiamo che non siamo al mondo per collezionare soldi, successo e gloria, perché in un latinissimo tempus fugit, ecco che ci ritroviamo una vita che non ci appartiene. All’improvviso, nessuno ad avvisarci di quanto sta accadendo, accade e basta. Ed allora “Sic transit gloria mundi”.
Il film di Sam Mendes, a rivederlo oggi, in una serata d’inverno che pare estate, ha il sapore di una fragola fuori stagione. Gustata con desiderio, assaporata con garbo ed infine giudicata quasi come una piccola delusione. Attenzione, è un film valente, pieno di citazioni, rimandi e qualche furberia (l’incipit con Lester che preannuncia a tutti che è morto, è semplicemente preso da Viale del Tramonto di Billy Wilder o il suo protagonista che pare una rivisitazione del professore Humbert nel Lolita di Kubrick). American Beauty nel 1999 lanciò la carriera di un regista alla costante indagine sulla figura paterna, riflette su un momento che, prima o poi, ognuno di noi vivrà. Tira le somme della vita di un uomo, lo seguiamo nel suo ribellarsi a ciò che egli stesso ha contribuito a creare, soffocando le proprie pulsioni di vita vera, dimenticandosi ciò che era e ciò che resta del suo essere. Afferra pienamente ciò che ha perso solo alla fine, nel correre a perdifiato verso qualcosa che con la vita non ha più nulla a che fare, ed allora riassapora tutto. Ma forse, è troppo tardi.
Marcello Papaleo
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