Sfogliando le pagine del programma di questa undicesima edizione, oltre ad enormi buchi di due/tre ore tra un film e l’altro, si notano picchi tra alti e bassi decisamente consistenti nei film selezionati. Una festa che è partita con largo anticipo nella speranza di dare risonanza all’evento con ben tre film di pre-apertura: American Pastoral, l’esordio alla regia di Jedi Ewan McGregor, In guerra Per amore, il nuovo film di Pif con Stella Egitto ed Inferno, terza trasposizione di Ron Howard dei romanzi di Dan Brown ( ora in sala ).
Monda rinuncia alle prime mondiali e sembra organizzare un corso di recupero per la stampa italiana che non è riuscita a seguire i festival fuori dal confine: direttamente da Cannes arrivano il bellissimo Hell or High Water, il nuovo film di David Mackenzie con Chris Pine e Ben Foster che impersonano due fratelli che si guadagnano da vivere commettendo rapine e dovranno fare i conti con la polizia, da Un Certain Regard il sopravvalutato e banale Capitan Fantastic, dove Viggo Mortnesen porta i suoi sei figli alla scoperta del mondo dopo che la madre è morta e hanno vissuto nella foresta per tutto questo tempo.
Da Londra e Toronto arriva il film d’apertura Moonlight di Barry Jenkins già autore di Medicine for Melancholy: il film tratteggia tre momenti fondamentali della vita di Chiron, una ragazzo di colore bullizzato dai suoi coetanei la cui vita cambia nel momento in cui incontra Juan (Mahershala Ali – Benjamin Button & Come un tuono), uno spacciatore. La fotografia anamorfica di James Laxton schiaccia tutto ciò che è sullo sfondo facendo muovere i suoi personaggi in un mondo a loro difficile e le musiche di Nicholas Britell rimandano alle partiture classiche, donando un contrasto armonioso e sinfonico che aumenta ancora di più il contrasto tra Chiron ed il mondo circostante. Da Moonlight traspare tutto l’amore e la passione che il filmmaker americano ha messo nel realizzare quest’opera portandolo ad un successo meritato. Ad Alice nelle città passa invece Kid in love che narra di Jack, fresco di diploma e prossimo a dover frequentare l’università di legge, che si innamora di Evelyn, una ragazza francese che convive con degli amici dedicando il suo tempo alle feste. Opera prima di Chris Foggin (che è stato aiuto regia su diversi film della grande industry britannica) a cui è stata affidata una sceneggiatura troppo scialba e piatta per potersi definire completa: un coming of age che non lascia nulla ma ha alcune pretese che possono far storcere il naso agli spettatori. La supponenza nel pretendere di dover consegnare un racconto di formazione con una sua personale identità sfocia poi nel diventare una storia banale e spesso incoerente nelle sue idee: se gli amici di Evelyn sono degli amanti del vintage, la colonna sonora e la fotografia sono estremamente moderne per poter dare peso a questo elemento narrativo, e diversi personaggi che meritavano un approfondimento vengono lasciati per strada. Ma è un film scritto da due giovani sceneggiatori che scrissero la prima stesura quando erano poco più che ventenni, perciò speriamo di vederli presto con un prodotto che superi questo loro esordio. Tra gli italiani abbiamo visto il nuovo Vicari con Sole cuore amore, spaccato della famiglia precaria italiana che abbiamo già visto e rivisto, girato con povertà di inventiva e specialmente senza alcun uso della metafora o ricorso ad un cinema di genere che avrebbe reso il film più interessante, peccato, perché con Diaz, Vicari si era dimostrato un autore sopra la media dei suoi connazionali, ma purtroppo questa volta è andato fuori strada.
La grande sorpresa per ora è stata Una, opera prima di Benedict Andrews che dirige Rooney Mara assetata di un amore perverso per Ben Mendelsohn ed il loro incontro sul posto di lavoro di lui farà risorgere desideri inaspettati e memorie passate. Andrews si muove benissimo tra gli spazi del magazzino rendendo la vicenda sempre movimentata e frizzante, manca giusto quel tocco di esperienza con gli attori che, vista però questa prima opera, Andrews acquisirà.
In anteprima rispetto all’uscita su Netflix arriva Into the Inferno, il nuovo film di Herzog questa volta alle prese con i vulcani, che ci fa tornare ai tempo in cui a scuola gli insegnanti ci mostravano le foto o i video delle eruzioni vulcaniche.
Questa prima metà di festival si conclude con The Accountant, il nuovo film di Gavin O’connor che narra di Christian Wolff, un genio della matematica più a proprio agio con i numeri che con le persone.
David O’connor è un autore che è stato capace di farsi un nome ed un marchio personale nell’industry hollywoodiana: dopo Warrior e Pride Glory torna a parlare di nuovo di conflitti tra fratelli, di famiglie distrutte, di persone anaffettive il cui unico scopo è trovare un loro guscio nel mondo e rinchiudercisi. I suoi personaggi sono dei veri combattenti, dei guerrieri nati per resistere alla società capitalista che sembra una giungla, O’connor stravolge il mito della famiglia americana perfetta e ne fa un quadretto dove nel bene e nel male tutti devono restare uniti, contro l’intera società, anzi: l’intero mondo. Il regista li segue nelle periferie delle città americane con uno sguardo intimo senza mai accennare a nessun pregiudizio, lascia fuori anche le bandiere americane, non c’è spazio per politici o discorsi patriottici nei suo film perché per lui i veri eroi sono gli abitanti di queste realtà.
Apprezzabili, nel corso della Festa del Cinema di Roma, anche le Masterclass con attori e registi che potrebbero essere rese più interessanti se incentrate sui loro metodi di lavoro, piuttosto che ridursi a mere chiacchierate tra cinefili, ma questo dipende un po’ da tutti. Con qualche piccola modifica, potrebbe essere la volta buona di avere un festival che parli alle nuove generazioni di cineasti.
Questa festa per ora non risulta memorabile, ma sicuramente sta mostrando un forte segno di ripresa rispetto ai precedenti anni. Noi aspettiamo fiduciosi la seconda metà di questa undicesima edizione.
Alessandro Bertoncini
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