Scegliendo un soggetto tra i più sfruttati in assoluto, effettivamente Paolo Virzì non ha esattamente intrapreso una strada facile.
E proprio da questo punto di vista, gli va innegabilmente dato atto di aver avuto la sensibilità e l’onestà necessarie per riuscire in un’operazione che non è affatto immediata, e soprattutto, non è mai superflua quando si tratta di disagio mentale.
Trasmettere in modo perfettamente accessibile ed efficace quanto al di sotto di qualsiasi forma possa assumere tale disagio, qualsiasi siano i suoi connotati, qualsiasi le caratteristiche fenomeniche attraverso le quali si manifesta, esista un malessere, una sofferenza, che è comune a chiunque, nessuno escluso, che parla la stessa lingua in ogni essere umano, al di là di qualsiasi etichetta diagnostica posta dall’esterno, di qualsiasi linea di demarcazione possa essere erroneamente tracciata tra sani e malati, che si può condividere, accogliere, comprendere o non comprendere affatto, respingere o allontanare, ma è la stessa per tutti, dentro, nel profondo, non ha la forma di un sintomo, di qualcosa che va spento, soppresso, curato, non è depressione, non è euforia, non è ansia, è dolore.
Lo stesso dolore che qualunque individuo è in grado di provare, al quale tutti siamo esposti, tutti.
Il fatto che poi possa assumere l’una o l’altra forma sintomatica è secondario.
Tutto questo, Virzì è stato in grado di farlo emergere molto bene, agevolato, anzi, forse sarebbe più appropriato dire, praticamente sorretto, dalla grande prova interpretativa delle due protagoniste, che hanno incarnato in modo sublime due personaggi scritti molto accuratamente, che palesano sia la sintomatologia che la sofferenza che ne è l’origine, ma ciò che è più prezioso è che sono in grado di far incontrare i loro malesseri, di farli interagire, di creare una reciprocità anche a partire da essi, e attraverso questa evolvere e determinare un progredire generativo.
Dove generativo non significa guarigione, non significa “e vissero tutti felici e contenti”, non significa ciò che non può significare, così che il film non scade mai nel melodrammatico o nel facile sentimentalismo in questo senso, ma può essere ed è l’unica strada per accedere ciò che c’è sotto il sintomo, poter percepirsi ed essere percepiti le persone che si è sotto quel malessere, e non dover sentire il proprio disturbo come un macigno, stagliarsi davanti a un sé che ne viene schiacciato, oppresso, e che spesso si perde senza che nemmeno se ne abbia consapevolezza.
D’altra parte, pur non potendocisi esimere dall’apprezzare e godere di questi aspetti indubbiamente molto pregevoli del film, a voler essere obiettivi e ad un’osservazione neanche tanto accurata, allo stesso tempo, non si può nemmeno evitare di dispiacersi del fatto che Virzì abbia intagliato una pietra di grande valore, incastonandola in una struttura che non ne è all’altezza.
A partire da tutti gli altri personaggi, tutti molto approssimativi e poco curati (come se quella cura fosse tanta ed esauritasi nell’attenzione riservata ai due principali) per continuare con il contesto in cui si sviluppa la narrazione, e ancora con il succedersi stesso degli eventi, tutto ciò che non riguarda direttamente le due meravigliose protagoniste e la loro relazione, dà la sensazione di essere poco approfondito, come se non ci si fosse presi troppo tempo per pensarlo, ma soprattutto, appunto, di essere palesemente pensato, ragionato, allestito formalmente ma poco sentito, con l’esito di risultare poco autentico, oltre che neanche sempre credibile; il che cozza e inevitabilmente stride con il perno centrale dell’opera, costituito da queste due grandi donne e dal loro rapporto, che invece presenta esattamente le caratteristiche opposte, essendo estremamente sincero e tutto fuorché poco sentito, e delineando, al contrario, un quadro perfettamente dipinto con pennellate fluide ed estrose, verosimilmente rese possibili più dal talento delle due interpreti che non dalla regia. Tanto da consentire che la loro energia e il loro slancio vitale oscurino e probabilmente compensino le mancanze dell’opera, che risultano così essere meno rilevanti.
Nonostante le imperfezioni, è più che riconoscibile nella pellicola, la usuale capacità di Virzì di rendere facilmente accessibili, delle realtà individuali profonde, tracciandone con sicurezza e attenzione gli aspetti più peculiari e le caratteristiche nelle quali ci si possa identificare agevolmente, così come ci ha già abituato ad apprezzare in opere come Ovosodo, Tutta la vita davanti o La prima cosa bella.
Tornando alle due attrici, Virzì le trova entrambe in particolare stato di grazia.
Valeria Bruni Tedeschi offre una fantastica interpretazione, incarnando perfettamente tutti gli aspetti dell’euforia e della vitalità di una donna cui non è rimasto altro che sé stessa e il suo estro, che ha trovato come unica via di fuga da una decadenza e un declino intollerabili, quella di esaltare il proprio essere fino all’eccesso, dando sfogo a quella pazza gioia contagiosa e travolgente che dà il titolo al film, di sparare a mille ogni sua risorsa per trascinare avanti quel senso di solitudine e quella vulnerabilità neanche troppo nascosti che nella loro trasparenza totale non sarebbero gestibili.
Micaela Ramazzotti regala invece un’interpretazione più sobria, misurata, nonostante sia palese la drammaticità del suo dolore, la forza che la porta verso il basso, e forse proprio nella sua discrezione, ancora più efficace.
È particolarmente bella e infinitamente triste una scena in cui, parlando al padre che va a trovarla in ospedale, per lasciarla come ha sempre fatto dopo pochi minuti di parole gentili, esprima meravigliosamente l’incredibile fame d’affetto che caratterizza certe persone e come in virtù di questa diventino in grado di ottimizzare le briciole che gli arrivano, autoingannandosi sulle gigantesche assenze e mancanze delle uniche persone al mondo che per loro rappresentano qualcosa, indipendentemente dal fatto che le amino o meno.
Ciò che appare meno efficace, forse, è la citazione fin troppo chiara di Thelma e Louise, che per quanto citazione aperta, risulta troppo poco naturale e non proprio fluida con il contesto narrativo, inserita in modo un po’ maldestro, che non era indispensabile e non apporta granché al valore dell’opera.
Presentato a Cannes alla Quinzaine des Realizateurs, La pazza gioia è ora nelle sale cinematografiche italiane (da martedì 17 maggio 2016) e seppur, come detto, non privo di difetti, è fatto in gran parte di materia prima genuina e onesta, di quella verità da cui non fa mai male farsi investire, che vale certamente la pena vedere.
Roberta Girau
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