Jennifer Lawrence se continua così fatturerà in brevissimo molto più di un piccolo Stato come San Marino. Il suo non è un nome bensì una macchina denaroforme: pile e pile di banconote verdi accatastate l’una di fianco all’altra. Ricordando alla strepitosa attrice de “Il Lato Positivo” che non incontrerà nessuno come il sottoscritto così innamorato al 5% di lei e del suo patrimonio, non si può che tributarle un plauso. Riesce a catalizzare le attenzioni del pubblico meglio di chiunque altro, reggendo quasi da sola un film, “Hunger Games: Il Canto della Rivolta – Parte I”, che alla lunga risulta essere come il vino servito dall’oste: annacquato ma altresì gradevole per chi è già alla seconda bottiglia. Il film di Francis Lawrence (che fantasia anagrafica sul set! :P) è infatti quanto di meglio un fan della saga nata dalla penna di Suzanne Collins si aspetti: emotivo, cupo e con digressioni introspettive sugli animi dei personaggi, analizzati in maniera più decisa rispetto ai capitoli precedenti.
Quello che in apparenza sembra il pregio migliore del film è anche la sua spada di Damocle: ritmo troppo compassato e piagnistei in loop di Jennifer Lawrence, che se non altro sarebbe perfetta per uno spot commerciale dei fazzolettini asciuga lacrime, tanti sono i piantarelli che si fa nell’arco di due ore di film, in preda ad un forte stress emotivo post Giochi della Memoria in cui ha perso il compagno Peeta (Josh Hutcherson), ora prigioniero a Capitol City. Il limite di “Hunger Games: Il Canto della Rivolta – Parte I” è figlio di una strategia di marketing voluta dai piani alti: suddividere in due capitoli il terzo atto della saga teen, che forse sarebbe stato più avvincente se fosse stato inglobato in un unicum, magari di due ore e mezza.
Nel film si entra nel vivo della ribellione, con la Ghiandaia Imitatrice, alias Katniss Everdeen, scelta come icona della lotta alla tirannia di Capitol City e del malvagio presidente Snow (il barba bianca Donald Sutherland). Nel terzo capitolo di “Hunger Games” assistiamo ad una sorta di meta cinema che ha un effetto straniante sulla protagonista, costretta a recitare il ruolo per la propaganda dei ribelli. Katniss è seguita come un’ombra da una troupe televisiva alla cui regia troviamo la Natalie Dormer de “Il Trono di Spade”, la quale l’effetto straniante lo provoca (e qui riporto reazioni a caldo della stampa all’uscita dalla sala) ad alcuni giornalisti di sesso maschile.
In “Hunger Games: Il Canto della Rivolta – Parte I” sembra di assistere ad una lezione di storia sulla Seconda Guerra Mondiale. Gli ingredienti ci sono tutti: due leader, Snow e Alma Coin (Julianne Moore), ai ferri corti che si dichiarano guerra, la propaganda al servizio del potere, le rappresaglie e le stragi di innocenti. Quello di Suzanne Collins è uno j’accuse nei confronti dell’orrore della guerra e un appello ai leader mondiali perché pongano fine alla corsa agli armamenti. Di certo tale intento non è portato avanti con il “porgi l’altra guancia” di Gandhi bensì con un incandescente “Se noi bruciamo, voi bruciate con noi”. Stratega dei ribelli e del sotterraneo e redivivo Distretto 13 è il compianto Philip Seymour Hoffman, che assieme all’Haymitch di Woody Harrelson dona ritmo e ironia all’opera dark di Francis Lawrence, in cui comunque c’è spazio per le qualità sonore della Jennifer Premio Oscar, che si esibisce in un live di “The Hanging Tree”, motivetto niente male che guiderà la rivolta. Insomma alla “ribelle meglio vestita della storia” (grazie alla solidale Effie Trinket/Elizabeth Banks) calzano a pennello le seguenti parole: “Tutti la fuori vorranno baciarti, ucciderti od essere te”. Chiedere a Gale (del bacio) per conferma e a Peeta della seconda azione. Ahhhhh se solo le donne preferissero quelli alti e con le spalle larghe. PEACE AND LAWRENCE.
In sala da giovedì 20 novembre.
Emanuele Zambon
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