Le cose belle raccontate da Ferrente e Piperno

Le vite di quattro ragazzi formano il ritratto di una generazione che avrebbe voluto fare tante belle cose

Le cose belle (di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, Documentario, Italia 2014, durata 88’)

Dopo aver ricevuto numerosi premi, tra cui il riconoscimento speciale ai Nastri d’Argento 2014 e il Miglior Documentario italiano del 2013 al Doc/It Professional Award 2013, il 26 giugno esce nelle sale italiane, in 10 copie, il documentario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno.

È l’agosto del 1999 quando i due registi fanno rotta su Napoli per selezionare i quattro ragazzini, due maschi e due femmine, protagonisti del documentario Intervista a mia madre realizzato per Rai Tre e che andrà in onda in prima serata l’anno stesso. In due settimane fanno quattrocento casting e, infine, scelgono i quattro ragazzini che alla domanda ‘Che cosa vuoi fare da grande?’ non rispondono Il calciatore o la modella. Intervista a mia madre raccontava il rapporto tra figli adolescenti e genitori in una Napoli carica di speranze e di fiducia come era la città campana alla fine degli anni Novanta. In quattro settimane, questo era il tempo a disposizione per le riprese, Ferrente e Piperno attraversarono le vite di Adele, Silvana, Enzo e Fabio, li seguirono a casa, con i genitori, per la strada, da soli, ne ascoltarono i sogni, i progetti futuri e ne mostrarono le realtà presenti. Un ritratto di quattro ragazzini fatto di tanti tasselli che ne coglieva gli sguardi pieni di speranze, ma anche i lunghi silenzi che seguivano a quella domanda: E le cose belle? Parlami un po’delle cose belle? Fotogrammi di vita che uniti mostravano non tanto e non solo il volto di una città – Napoli – quanto quello di un periodo della vita: l’adolescenza. L’adolescenza vissuta alla maniera un po’ ingenua di Enzo, che girava la città in macchina con il padre per cantare nei ristoranti canzoni del repertorio melodico napoletano, o alla maniera divertita e ironica di Fabio, che accompagnava la madre al mercato del pesce la mattina all’alba e diceva al padre che non voleva fare il restauratore perché non si guadagnava abbastanza, o alla maniera leggera di Adele, che era stata bocciata per quattro volte a scuola perché lo studio non le interessava, lei si esprimeva ballando, o, infine, alla maniera seria e responsabile di Silvana, che puliva e riordinava casa cantando le canzoni di Gigi D’alessio mentre il padre era a lavoro e la madre se ne era andata di casa con un altro uomo.

Dopo queste quattro settimane di riprese il rapporto tra i registi e i ragazzi non si è mai interrottto, è andato avanti, finchè dieci anni dopo, nel 2009, grazie anche alla spinta iniziale del contributo economico della Regione Campania e della Pasta Garofalo – senza i quali, come ammettono gli stessi registi, il film non sarebbe stato possibile – Ferrente e Piperno tornano a Napoli per vedere se quell’augurio di Tante cose belle – da cui nasce il titolo della pellicola – si è realizzato per qualcuno di questi ragazzi oppure no. E ciò che colpisce è come a diventare realtà per questi ragazzi non siano stati i sogni, ma i sogni mancati, le seconde linee dei sogni. Per Adele il sogno di diventare ballerina si realizza esibendosi in uno strip club, quello di Silvana di avere una famiglia prende corpo badando lei stessa alla propria famiglia di origine e rinunciando così di fatto ad avere una propria vita. Le cose belle sembrano rimaste nel passato, nell’adolescenza che, ormai, non c’è più. Oggi rimane solo la realtà, la stessa in fondo di dieci anni prima, una realtà di quartieri popolari dove le probabilità di successo sono ridotte al lumicino, per cui acquistano un senso ancora più forte le parole di Silvana quattordicenne che alla domanda: Che progetti hai per il futuro? rispondeva: Progetti, meglio non farli proprio.

Nonostante Ferrente e Piperno parlino di questi giovani come fiori sbocciati nella spazzatura e vedano una cosa bella anche solo nel fatto che questi ragazzi non siano finiti da grandi nelle maglie della camorra il sapore che lascia il film è amaro. Con queste immagini della Madonna o del Cristo che campeggiano in ogni palazzo, come testimoni muti di un destino ben poco misericordioso èer questi ragazzi. Con queste canzoni napoletane – classiche e moderne – che fanno da colonna sonora non solo del film, ma delle vite di questi giovani, vite vuote di tutto ciò di cui queste canzoni parlano: la passione, la vita, l’amore.

Un film bello che parla non di una città, ma di una generazione figlia di un Paese, l’Italia,  che si è dimenticato di dare a tutti i suoi ragazzi delle cose belle non solo per il presente, ma anche per il futuro. Un film che racconta il fallimento senza fare degli sconfitti delle vittime o degli eroi di tutti i giorni. Un film che mostra come forse la cosa più bella sia la capacità di questi ex-ragazzi di andare avanti ora che davanti a loro non c’è più nulla.

Il film è un documentario, ma al contrario di altri loro colleghi, Ferrente e Piperno, come loro stessi affermano, non sono registi di osservazione, non vogliono essere neutri, ma vogliono rendere attraverso il linguaggio della fiction il tipo di emozione di cui si sono innamorati quando hanno incontrato questi quattro ragazzi. Per questo hanno utilizzato artifici narrativi per ricostruire le cose vere che di quei ragazzi avevano amato. Un documentario che nasce, quindi, da un mix di scene vere dal vivo e di scene vere ricostruite con i protagonisti.

Dieci copie per un film di questo livello sono poche, ma, come ammette il Presidente dell’Istituto Luce, che distribuisce il film, non può andare oltre le criticità di un sistema distributivo che non dovrà necessariamente cambiare per stare al passo con un sistema produttivo che è immensamente mutato negli ultimi anni.

 Flaminia Chizzola

 

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