Italia: 59.865.000 abitanti, 4,1 medico ogni mille abitanti (media europea di 3,4), 965,2 dosi giornaliere di farmaci prescritte ogni mille abitanti, 1 miliardo e 368 milioni di confezioni di medicinali acquistate in un anno, per una spesa complessiva di 19,2 miliardi di euro, tre quarti dei quali rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale, miliardi che finiscono nelle tasche delle case farmaceutiche le quali producono il quarto fatturato mondiale[1]. Il venditore di medicine di Antonio Morabito – in uscita nelle sale italiane il 29 aprile, in sole 50 copie – racconta l’”universo malato della sanità” partendo da una prospettiva che quasi in nessuna statistica compare: quella degli informatori scientifici,
Claudio Santamaria è Bruno, un informatore che ogni giorno va da medici e farmacisti per aggiornarli sugli studi relativi ai farmaci già in commercio e per informarli sull’uscita di nuovi farmaci, dei quali illustra ogni aspetto (azione, vantaggi e controindicazioni). La crisi che sembra non aver quasi sfiorato l’industria del farmaco, si è, invece, abbattuta sull’ultima ruota del carro: in dieci anni gli informatori scientifici sono scesi dai 34 mila del 2000 ai 16 mila di oggi. In questo clima di licenziamenti a tappeto bisogna esser disposti a tutto pur di non perdere il lavoro. Ma in che cosa consiste veramente il lavoro dell’informatore?
Il venditore di medicine ci porta nella vita di tutti i giorni di un informatore qualunque nè particolarmente simpatico né antipatico, né intelligente né stupido, né bello né brutto, un informatore qualunque che la crisi non rende più cattivo, ma solamente più spregiudicato. Il mondo della sanità, in cui Bruno si muove, infatti, è già “cattivo”, cioè catturato da un qualcosa di esterno a esso: la fame di soldi, di successo, di donne. Proprio come tutti gli altri mondi sembrerebbe, eppure in quel mondo c’è in gioco qualcosa di molto importante se i suoi “operatori” indossano una camice, alla maniera dei sacerdoti.
Parallelamente alla vita lavorativa scorre la vita personale di Bruno, sposato con un’insegnante di liceo che, a trentacinque anni, sente l’esigenza di avere un figlio, ma la crisi è come un treno che deraglia e investe ogni cosa. Costantemente monitorato via cellulare dalla sua superiore – “una vera carogna” così Isabella Ferrari si definisce come Capo Area – Bruno deve cercare di far vendere sempre più farmaci e così ogni mattina parte per il suo giro di cliniche, ospedali e studi privati dove incontra medici compiacenti, con i quali ha rapporti, ormai, consolidati. In piena sincerità Bruno chiede loro un numero sempre crescente di prescrizioni: antibiotici, vaccini, nuovi farmaci uguali ai vecchi non fosse che per la confezione. In cambio Bruno offre soldi, cellulari, ipad, viaggi pagati per due al prossimo convegno medico e i medici accettano, tutti tranne uno, il nuovo arrivato, la mosca bianca. Ma non basta. In tempo di crisi non è sufficiente prescrivere antibiotici quando non ce ne è bisogno, vaccini a pazienti deceduti o farmaci non necessari che, però, provocheranno ai pazienti effetti collaterali cui si dovrà porre rimedio prescrivendo altri farmaci. In tempo di crisi se l’ultima ruota del carro vuole sopravvivere deve alzare il tiro e puntare al settore dove si fanno i veri soldi: quello oncologico. Sarà lì che Bruno dovrà affrontare la bestia nera degli informatori, l’incorruttibile Professor Malinverni, interpretato da Marco Travaglio. E per corrompere un incorruttibile c’è solo un modo: dimostrare che non è veramente puro come sembra.
E tutta questa corruzione, questo commercio sui bisogni, le speranze, le illusioni dei malati perché? Perché non è il medico che porta i soldi alla casa farmaceutica, ma è la casa farmaceutica che dà da mangiare a molti medici. Convegni, riviste, ricerche: le case farmaceutiche finanziano la maggior parte delle iniziative mediche. Se ci vuoi essere, se vuoi farti leggere, se vuoi curare, le case farmaceutiche sono la risposta, e Bruno è il tramite per arrivare a questa risposta. Il regista senza retorica pietistica ci introduce a un mondo corrotto che non viene distrutto dalla crisi, ma viene reso ancor più spietato. Bruno, la sua capo area e tutti i camici bianchi che si fanno corrompere non sono dei mostri perché cercano il male, ma perché lo fanno come fanno qualsiasi altra cosa. Per loro, come forse per noi, non c’è più alcuna differenza..
La pellicola di Morabito, nata da un’esperienza personale del regista, non è né un’inchiesta né un documentario, ma sicuramente una pellicola di denuncia di un sistema malato ed estremamente potente, se è vero, come dice il produttore, Amedeo Pagani, che “è difficile fare film come questo”. È difficile perché non si trovano i finanziamenti, perché s’incorre nelle proteste di medici, farmacisti, informatori, ma soprattutto, perché schierarsi contro le case farmaceutiche, significa schierarsi contro la quarta industria del mondo. Come la parola farmaco che significa sia medicina sia veleno così il mondo della sanità nel suo complesso sembra contenere il bene e il male, la cura e la malattia. In fondo il camice bianco non è solo dei medici, ma anche dei macellai.
In uscita il 29 aprile nei cinema italiani.
Flaminia Chizzola
[1] Dati del Rapporto “Uso dei farmaci in Italia, riferito al periodo gennaio-settembre 2012, che riporta per la prima volta il quadro organico dei farmaci erogati dalle strutture sanitarie pubbliche. Il Rapporto, frutto dell’attività di monitoraggio dell’Osservatorio Nazionale sull’Impiego dei Medicinali (OsMed) dell’AIFA e realizzato in collaborazione con il Ministero della Salute e l’Agenas. http://www.agenziafarmaco.gov.it/sites/default/files/Rapporto%20OsMed%20gennaio%20settembre%202012_0.pdf
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