Il burqa e la condizione femminile in Afghanistan visti attraverso lo sguardo di Nima Sarvestiani
“Alle donne è proibito frequentare scuole o università. Alle donne non è consentito svolgere alcuna attività fuori casa a meno che non siano accompagnate da un mahram (parente stretto come un padre, fratello o marito). Le donne non possono parlare né dare la mano a uomini non mahram. Alle donne non è permesso ridere ad alta voce né portare i tacchi (un uomo non deve sentire i passi di una donna). Le donne non possono essere presenti sui media. Le donne non possono praticare uno sport né andare in bicicletta. Le donne non possono mostrarsi sui balconi delle loro case e non devono essere viste dal di fuori di esse (motivo per cui è obbligatoria la pittura dei vetri delle finestre). Le donne accusate di avere relazioni sessuali fuori del matrimonio sono lapidate pubblicamente.”
Le frasi precedenti riassumono alcune delle leggi sulle donne imposte dal regime talebano, salito al potere in Afghanistan nel 1994. Nonostante la situazione politica del paese sia profondamente cambiata dopo l’intervento statunitense successivo all’attentato dell’11 settembre, le condizionidi vita della popolazione femminile in Afghanistan risultano ancora oggi critiche. Le donne afghane spesso non hanno una voce né un volto. Il simbolo della loro oppressione può essere identificato con il burqa, il lungo velo che le ricopre da capo a piedi.
No Burqas Behind Bars (Nessun burqa dietro le sbarre) è un documentario del 2013 diretto dallo svedese Nima Sarvestiani, ambientato nella prigione afghana di Takhar. La sezione femminile di questo complesso ospita 40 donne e 34 bambini, che condividono 4 stanze e un cortile. La maggior parte delle donne si trova a Takhar per lo stesso motivo: essersi ribellate al proprio stato di sottomissione. Molte detenute affermano tuttavia di trovarsi meglio “dietro le sbarre” che al di fuori di esse, dove hanno dovuto sottostare in silenzio a uomini che le hanno vessate e umiliate. In prigione le detenute possono invece esprimersi liberamente, senza alcun obbligo di indossare l’opprimente burqa.
Il documentario di Sarvestiani descrive la condizione femminile in Afghanistan tramite la storia di alcune delle detenute di Takhar, ed in particolare tramite quella di 3 di loro: Najibeh, Sima e Sara.
Najibeh si trova qui per essere scappata da suo marito, che la tradiva e la picchiava nonostante fosse incinta; la ragazza ha scelto di fuggire per proteggere il suo bambino, e solo per questo motivo è stata condannata a 10 anni di prigione. Quando è arrivata a Takhar Najibeh portava in grembo il figlio di 2 mesi; quel bambino era tutta la sua vita ma, non possedendo il denaro necessario per nutrirlo, è stata costretta a venderlo poco dopo la sua nascita.
Sima invece è stata obbligata a sposarsi a soli 10 anni, con un uomo che aveva già altre mogli. Suo marito era una persona violenta, che spesso la picchiava e che aveva già ucciso una moglie e un figlio nato da un matrimonio precedente. Temendo per i suoi 6 bambini Sima è scappata, accompagnata da un figliastro, cercando di ritornare dalla sua famiglia d’origine. In Afghanistan tuttavia una donna non può neanche uscire di casa senza l’autorizzazione del marito, e per questo motivo sia lei che il figliastro sono finiti in carcere. La condanna di Sima è di 15 anni, ma lei preferirebbe poter rimanere a Takhar per sempre.
Sara è una ragazza coraggiosa, costretta a scappare di casa per non dover sposare un uomo che non amava. Ha deciso di fuggire con il suo ragazzo, Javid, ma entrambi sono stati rintracciati e rinchiusi nel carcere di Takhar. Sara sogna un giorno di uscire di prigione, trasferirsi a Kabul, studiare e formare una famiglia con Javid. Anche lei dice di trovarsi meglio in carcere che al di fuori, perché “quando sei all’esterno tutti ti controllano e non puoi decidere della tua vita”. Sara afferma che “la legge non capisce le donne, la legge non si chiede perché sei scappata”.
Chi esce da Takhar sa che il proprio destino tornerà presto a dipendere da altri. Una volta scontata la propria condanna in carcere, le donne che hanno osato fuggire rischieranno infatti di essere uccise da un familiare o dal proprio marito, forse ancora mortalmente offesi dal loro intollerabile gesto di ribellione. Chi esce da Takhar raccoglie le sue cose, saluta le compagne e si affida a Dio. Uno degli ultimi gesti che impone la prassi alle detenute è quello d’indossare nuovamente il burqa: solo allora potranno finalmente varcare la soglia del carcere. La donna che si allontana da queste mura sa tuttavia che ad attenderla c’è spesso solo un’altra forma di reclusione, in una prigione priva di sbarre, ma ben più dura e logorante di quella che si è appena lasciata alle spalle.
Luisa Tumino
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