Perdita e vuoto interiore trovano via d’uscita in Before I Disappear

Non delude, nonostante i difetti probabilmente dovuti all’inesperienza e all’eccesso di fiducia nel proprio lavoro individuale, il lungometraggio d’esordio di Shawn Christensen.

Diversi i meriti riconoscibili alla seppur non inappuntabile opera prima del regista Shawn Christensen, Before I Disappear, che sceglie di esordire nel lungometraggio, investendo sul già riconosciuto e fortunato progetto che gli ha consentito di vincere un Oscar con il cortometraggio CURFEW, nel 2013.
Christensen prova a replicare l’impresa estendendo e ampliando la trama del corto vincente, dando origine a un lavoro di circa 100 minuti che è stato presentato in anteprima alla 71^ Edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori.
Fatica, nel vero senso del termine, della quale è praticamente artefice assoluto, che lo vede impegnato nel multiplo ruolo di sceneggiatore, regista, interprete protagonista, produttore, montatore e occuparsi persino di alcune tracce della colonna sonora, ingrediente nel suo complesso, di un certo pregio, per il quale sfrutta le sue competenze, passione ed esperienza in ambito musicale.
Già il fatto di occuparsi personalmente di tante incombenze, è uno sforzo non certo indifferente, che ha comportato, sì, un prodotto finale non privo di difetti ma è piuttosto evidente come in ognuno degli impegni nei quali il giovane autore si è cimentato, possano riconoscersi delle qualità promettenti e degne di rilievo.
Ad aiutarlo, l’essersi avvalso innanzitutto, di materia prima di qualità, e nello specifico, di un cast di tutto rispetto, a iniziare dalla giovanissima coprotagonista Fatima Ptacek, che lo ha accompagnato anche nel primo progetto, dimostratasi perfettamente in grado di sostenere la parte, a suo agio e adeguata nel riempire la sua congrua porzione di spazio nella scena.
Di un certo rilievo anche gli altri interpreti, tra i quali l’amico Paul Wesley, già noto per la sua interpretazione nella serie Vampir Diaries, che ha partecipato anche alla produzione, e ancora Ron Perlman e Emmy Rossum.
Per quanto la trama non sia particolarmente complessa o sofisticata e l’opera presenti una narrazione abbastanza semplice e poco originale, ci si trova davanti a una visione piacevole, che associa una gradevole leggerezza alla presenza di momenti coinvolgenti, e non manca di elementi e scelte di regia che la impreziosiscono, ne stemperano l’ovvietá e la rendono meno scontata.
Christensen sceglie infatti, un’ambientazione cupa e straniante, ritraendo una NewYork dai colori psichedelici, che gli consente di creare un’atmosfera alienante e lievemente astratta che in qualche modo contrasta la semplicità e la convenzionalità dell’intreccio.
Interessante inoltre, la scelta di inserire alcune componenti oniriche e una scena dai caratteri del musical, che per quanto potessero essere resi un po’ più fluidi con lo scorrere della trama, la rendono più sottile e raffinata.
Per quanto riguarda i contenuti, è un film che gira intorno alla perdita, il continuo inseguire il suicidio del protagonista, la morte della fidanzata, di cui percepiamo soltanto la grande assenza e il vuoto che ha lasciato, il terrore anche solo all’idea di perdere la persona amata dell’amico, terrore poi confermato,, l’abbandono e il rifiuto di un padre verso la figlia; perdita che rappresenta una condizione di peso che schiaccia qualsiasi possibilità di equilibrio, di gestione della propria vita, negando vitalità e togliendo respiro a ogni speranza di benessere.
Il suicidio viene utilizzato più che come tematica vera e propria, come espediente per descrivere una morte più profonda, desiderata, vissuta, una morte interiore.
Quella che colora e riempie la vita di chi non riesce a tollerare il vuoto, di chi ha una sofferenza talmente grande dentro che si mangia tutta l’energia, la speranza, lo slancio vitale.

“Sai qual è la cosa meravigliosa di te, Richie?
È che la morte non è solo una destinazione per te.
È parte di te.
Vive in te.
Fa parte del tessuto della tua anima.
Devi solo accettare il fatto che ogni giorno della tua vita, vorrebbe essere l’ultimo.”

E si fa strada in questo buio, un messaggio non certo originale e non esattamente illuminante ma sempre valido, quello per cui si è morti dentro e si rimane tali, sino a che non accade qualcosa di affettivamente significativo per cui vale la pena di lottare, che è la sola e unica cosa che può accendere dentro qualcosa in quel buio, qualcosa di vivo che diventa la ragione per dare un valore alla propria vita.

La caratterizzazione dei personaggi avrebbe potuto essere più accurata e il tutto esita in un finale un po’ debole e forse troppo sbrigativo, ma nel complesso Before I Disappear è un film che vale la pena vedere e che fondamentalmente non delude.

Roberta Girau

 

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