Presentato al TFF 2016 Antiporno

Il nuovo film del cineasta giapponese Sion Sono affronta la tematica del porno.

In una stanza che funge da casa e il suo studio, una giovane artista e scrittrice mette in scena il suo sogno di diventare un’attrice porno, seguendo un preciso ma misterioso copione.

Sion Sono con Antiporno continua a muoversi dentro spazi ristretti: l’anno scorso in “A Whispering star” aveva messo una giovane donna dentro un’astronave che consegnava pacchi agli abitanti dei pianeti di una galassia, qui invece rinchiude le sue fanciulle dentro delle stanze nelle quali loro sviluppano uno stato di prigionia e sofferenza fisica ma soprattutto psicologica: sono tutte affette da un senso di inferiorità, di sottomissione e per fuggirne trovano rifugio dentro la prostituzione. Sono per tutto il film gioca sul filo del rasoio tra realtà e finzione mettendo in dubbio se questa sia solo una realtà illusoria o un vizio alimentato dallo schiavismo creatosi nella società, ciò lo fa in maniera molto abile con la fotografia che per tutto il film, attraverso un’illuminazione piatta e ben lontana dall’essere realistica, dichiara le intenzioni di Sono che usa la pornografia come pretesto per dare vita a tante sfaccettature del mondo post- cyberpunk: la stanza in cui si muove la protagonista ha delle ventole alle pareti, dalle quali penetrano fasci di luce. Ci viene oscurato il mondo all’esterno, eppure si ha la sensazione che il mondo che Sono cela con le pareti sia vicino a quello di P. K. Dick in Do Androids Dream of Electric Sheep?: i vestiti così come i comportamenti delle persone stesse sono così eccentrici che sembrano tutti impegnati a guadagnarsi i 15 minuti di celebrità di Warhol, solo che qui è tutto molto colorato, molto acceso, la passione e la tensione sessuale la si percepisce per tutto il film che accompagna la ricerca di identità delle protagoniste e Sono questa cosa la fa con una classe strepitosa. L’unica volta che una donna si specchia, l’oggetto è rotto, frantumato, lei si vede in parte, non tutta e defluisce poi in uno sfogo di rabbia che si protrae per tutto il film fino al momento in cui un regista urla “stop!” e qui il regista giapponese ingrana un meccanismo molto simile a quello di Sleuth: c’è un fulmineo ed inaspettato cambio di ruoli, una geniale e metaforica battaglia sociale, dove chi è al potere viene preso e messo a terra. In tal modo la contemplazione della “giornalista” anti-kantiana delle opere della prostituta, nelle quali viene rifiutata ogni tipo di purezza, e tutti gli altri concetti formulati durante il film diventano vani. Sono gioca in maniera fastidiosa ed inutile a provocare lo spettatore con un “gergo” pornografico che lascia il tempo che trova, perché non è tramite una banale promozione dell’eccitazione che il film sale di livello, ma tramite una scansione del ritmo ed un’esposizione più vicina ad un linguaggio teatrale che il film poteva diventare effettivamente appetibile come aveva fatto, per esempio, Gaspar Noé nel meraviglioso “Love”, dove la provocazione derivava proprio dal linguaggio cinematografico/visivo usato e non dal contesto in sé. Si sta facendo cinema, quindi usiamo un linguaggio attinente senza farne uno spreco.

Alessandro Bertoncini

 

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