SmoKings, esordio alla regia di Michele Fornasero, è un film provocazione che racconta la realtà di una fabbrica di sigarette italiana, quella dei fratelli Messina a Settimo Torinese. Gianpaolo e Carlo Messina sono i titolari della Yesmoke, un’azienda che nasce come sito di vendita on line (esentasse) di sigarette, la Yesmoke.com, per poi diventare una delle due aziende italiane (l’altra è quella di Chiaravalle) a produrre in proprio e distribuire sigarette sul mercato nazionale e internazionale. Una realtà sconosciuta ai più quella del tabacco e dell’Italia in relazione al tabacco. Un paese che non vuole più produrre tabacco, preferendo importarlo dalle grandi multinazionali estere. Dove i controlli degli ingredienti contenuti nelle sigarette si concentrano sui livelli di catrame e nicotina e qualunque altro ingrediente passa inosservato.
A dispetto di ciò, i fratelli Messina, con un enorme spirito imprenditoriale, pur potendo vivere di rendita a vita (avendo guadagnato centinaia di milioni di dollari tramite la vendita on line di sigarette), decidono di mettersi in gioco e farla pagare ai “Big tobacco”, aprendo una fabbrica di sigarette e arrivando ad avere ben 80 dipendenti. Inutile dire che i loro sforzi non sono stati apprezzati dal Monopolio di Stato italiano, che sembra continuare a preferire le multinazionali. Attualmente i due fratelli sono in carcere e l’intero complesso aziendale è stato posto in custodia giudiziale a un amministratore nominato dall’autorità giudiziaria.
Il film documentario di Fornasero ci mostra gli sforzi di questi due fratelli contro la Philip Morris prima, che li aveva accusati di concorrenza sleale e contrabbando ai tempi della vendita on line di sigarette, e poi contro la Stato italiano per ottenere l’abolizione della tassa minima delle sigarette, oltre alla battaglia per far togliere l’autodefinizione di “prodotto italiano” sui pacchetti delle sigarette Diana (che italiane non sono).
Due fratelli contro “i sette bastardi”, così i Messina definiscono i presidenti delle multinazionali di tabacco.
Un film che racconta una storia straordinaria dove non ci sono buoni e cattivi, ma che nasce proprio dall’eccezionalità di quello che questi due fratelli stavano facendo.
SmoKings è tra i 5 finalisti che concorrono per il premio Premio DOC/IT PROFESSIONAL AWARD che premia il miglior documentario italiano. Abbiamo incontrato il regista Michele Fornasero in occasione della proiezione romana di SmoKings alla Casa del Cinema per Il mese del documentario che ha risposto ad alcune domande raccontandoci la storia di questo film, della sua opera prima….
Come mai SmoKings e come mai un tema così difficile per il tuo esordio alla regia?
È capitata per caso questa storia. Ho fatto due film con Gabriele Vacis, facevo montaggio e fotografia, e mentre giravamo un film, Uno scampolo di paradiso, eravamo a Settimo Torinese, e ho scoperto che c’era questa realtà. Siamo andati a visitare la fabbrica e ne abbiamo scoperto la storia. In quel film, poi, non l’abbiamo montata perché era una storia troppo pazzesca per stare dentro un film come Uno scampolo di paradiso, che era un film più intimista che cerca di raccontare la periferia di Torino. Questa invece era una storia di multinazionali, di gangster, di cattivi, di sanzioni da 500 miliardi, una cosa troppo grande rispetto a quelle storie piccole. Quindi, non l’abbiamo montata e poi, due anni dopo, quando ho finito gli altri progetti, volevo fare il mio primo film e sono andato a rispolverarla. Sono tornato alla fabbrica e ho chiesto ai due fratelli di raccontarmi bene tutta la storia. Perché, a colpo d’occhio, ti arriva come una fucilata, sembrava un film di Tarantino. Quando me l’hanno raccontata la prima volta, mi sembrava surreale e non riuscivo a credere fosse vero.
Entri in questa fabbrica e vedi tutti i murales dipinti contro le multinazionali, sembra un’associazione contro il fumo, quasi, entrando. È in contraddizione piena con quello che fanno dentro, ovvero sigarette e hanno i murales contro le sigarette e quindi ti chiedi: “dove sono capitato?”. E poi c’è questa cosa che loro te la raccontano come fosse la cosa più normale del mondo. Ti dicono “ma sì, vendevamo sigarette on line, poi abbiamo fatto 100 milioni di dollari di fatturato, il sito più grande al mondo di vendita on line, poi la Philip Morris ci ha fatto causa per 500 milioni di dollari…” cioè tutto normale, ordinaria amministrazione. Quindi tu rimani sconvolto innanzitutto da questo modo di approcciare a queste vicende come se fosse normale, con quella pacatezza che poi è loro, perché sono proprio fatti così, non è che ci giocano, sono proprio così. Quindi è una cosa che ti incuriosisce.
Poi all’inizio pensavo di fare quasi un film inchiesta sul tabacco, pensavo “adesso entriamo in questo mondo e scopriamo chissà che cosa.” Poi, man mano che andavo avanti, ma quasi subito, ci siamo accorti che erano loro due la storia. Cioè se tu hai 50-60 milioni da parte, non te ne vai a vivere alle Maldive? Non vivi così, girando il mondo, cioè cosa te lo fa fare di aprire una fabbrica? Potevi vivere tu, le tue progenie, figli, nipoti… chi te l’ha fatto fare di aprire una fabbrica in Italia, di sigarette contro “big tobacco” come quelli? E questo è quello che ho cercato di capire in questi 4 anni, per cui poi li abbiamo seguiti per 4 anni.
Ho capito che a loro effettivamente dei soldi non gliene frega niente. È la voglia di fare qualcosa, cioè devono raggiungere un risultato che sia eclatante, devono tenersi impegnati in qualcosa di grosso, devono lasciare il segno. Però non è per apparire. Per esempio, fino al quel momento era molto difficile che si facessero filmare, fotografare, ecc. Erano molto nell’ombra, però sapevano, in coscienza loro, di fare qualcosa che secondo loro era importante. E quindi da un lato sembrano quasi dei capitalisti estremi per cui il profitto non conta, conta l’impresa, dall’altro non sono dei Santi, sono i piccoli contro i grandi, giocano con le stesse armi di quelli grandi. Quindi, era proprio quello che volevo capire, perché corressero, per cui in tutto il film c’è la metafora della corsa. Questi corrono, corrono da quando sono piccoli, non si fermano mai. Anche lì, quando gli ho detto “ma voi cosa ne farete di questa fabbrica tra 10 anni?” Loro: “Ma sì, adesso che vinciamo, facciamo cambiare la legge e tutto, magari diventa noioso, quindi poi potremmo vendere a una multinazionale, loro ci danno 1 miliardo e noi ci buttiamo nel farmaceutico. Oppure compriamo una televisione. Se non hai più niente per cui combattere, diventa tutto noioso.” Hanno una sorta di incoscienza adolescenziale quasi. Dopodiché sono dei businessmen e in quello che fanno hanno il loro tornaconto personale, anche se alcune campagne che sostengono sono assolutamente condivisibili, quella sulla TASI, sugli ingredienti. Siamo uno degli Stati con la tassazione più bassa in Europa e non si capisce perché e cosa c’è dentro le sigarette. Però diciamo che non sono neanche Olivetti, è questo un po’ il discorso di fondo. Non hanno quell’aspetto sociale per cui “lo faccio solo per la comunità”, Olivetti aveva l’idea di occuparsi veramente della comunità, in primo luogo. A loro questo manca. Però, appunto, non sono né buoni né cattivi, questo è il discorso. In questa storia non ci sono buoni e cattivi, ci sono i piccoli, ci sono i molto grandi e poi c’è lo Stato che non si capisce bene dove sta, perché sembra che stia quasi sempre con i molto grandi a scapito dei piccoli. Sembra evidente e non si capisce bene il perché, diciamo…
Ci sono voluti 4 anni per arrivare a un risultato. C’era un obiettivo di partenza o è uscito fuori in corso d’opera?
Assolutamente no. Nel 2010, quando abbiamo iniziato a girare, in realtà la fabbrica era molti piccola, nel senso che avevano poche linee produttive, avevano 20 dipendenti, ora ne hanno 80/90. Era molto ridimensionata rispetto a oggi. Le sigarette in tabaccheria non si trovavano, solo a Torino e in qualche città della zona, ma erano proprio all’inizio. E c’era questa legge che era appunto la tassa minima. Era appena avvenuto il cambio da prezzo minimo a tassa minima, anche lì evadendo una sentenza della Corte di giustizia europea, e non si sapeva cosa sarebbe successo, poteva anche non succedere niente. Noi, a quel punto, avremmo raccontato il loro passato fondamentalmente, fino alla realizzazione della fabbrica. Poi era stata ventilata la possibilità di vendere in nord Corea, quella poteva essere interessante. C’era ancora lo stabilimento di Lecce aperto dei monopoli, che però è stato chiuso l’anno dopo, nel 2011, e quello poteva essere una possibilità, che lo rilevassero, lo comprassero. C’erano delle strade aperte, però di sicuro non ci immaginavamo che sarebbe successo tutto quello che è successo dopo: gli assedi con i blindati, le leggi che cambiano, i blocchi della fabbrica… È successo di tutto e di più, per cui il presente è diventato molto consistente rispetto all’idea che avevamo all’inizio.
Quindi, il film si è evoluto da sé, è stato tutto un po’ inaspettato….
Sì sì, assolutamente. Poi il bello dei documentari è un po’ quello che non sai mai come va a finire. Il film lo fai veramente durante, non puoi scriverlo. Anche perché se è già tutto scritto prima, diventa un’esposizione noiosa di quello che vuoi dire tu, non stai veramente seguendo la storia. Quindi, nel documentario devi essere sempre lì a inseguire, a cercare di capire dove andare e soprattutto capire qual è il film, di tutte quelle cose che succedono dove concentrarti. Poi quella è la parte difficile, quando chiudere il film per esempio. Noi avremmo potuto continuare a filmarli per sempre, sarebbero successe altre cose, sono stati arrestati. Avremmo davvero potuto continuare a filmarli per sempre e sarebbe sempre successo qualcosa. A un certo punto abbiamo capito che quello che volevamo raccontare, cioè quello che volevamo raccontare di loro due, del loro approccio, c’era. Poi ovviamente succedono altre cose, quindi ogni tanto aggiungiamo un cartello di aggiornamento. Però il succo era raccontare loro due e perché lo fanno. Cercare di capire come ragionano, come si approcciano alla vita. Però all’inizio non avevamo idea di come l’avremmo fatto.
Quali sono state le maggiori difficoltà, sia da un punto di vista organizzativo che tecnico?
Le difficoltà sono state tantissime. In effetti non era semplice come opera prima, ma nel senso che per il tema trattato avevamo un sacco di problemi perché noi volevamo fare una storia ambigua, una storia in cui i personaggi non fossero i buoni dichiarati e questo era un po’ politicamente scorretto.
I miei personaggi producono sigarette e già questo crea una sorta di blocco nella gente, quando se ne parla. C’era il discorso di contattare, avere le interviste dalle multinazionali, quello è stato un grosso problema: “Ce le daranno… Non ce le daranno?”
Abbiamo chiamato in causa uno studio di legali, VPM si chiamano, che ci hanno seguito per tutto il film, verificando tutte le cose che i fratelli Messina dicevano, quindi tutte le sentenze che citavano, i casi, ecc… perché un conto è sentirle dire, un conto è andare a leggere gli atti della sentenza e capire se quella roba lì è vera, le motivazioni, eccetera. Quindi, ci hanno seguito in tutto e hanno evitato innanzitutto che noi finissimo in galera, perché c’era anche questo rischio di venire citati in giudizio, poi si sono messi in contatto con la Philip Morris, con la BAT, con i Monopoli di Stato per avere le interviste. Hanno mantenuto il carteggio di noi che gli chiedevamo le interviste e loro che ce le rifiutavano in modo da essere tutelati nel caso dicessero “è di parte”.
Abbiamo cercato comunque di non farlo di parte, perché il nostro obiettivo era il più oggettivo possibile, però è chiaro che se ti dicono “fate pure il documentario, fate quello che volete poi vediamo. Noi l’intervista non ve la diamo…” suona un po’ come una minaccia tipo “vediamo poi se farvi causa”. Quindi, dal punto di vista registico fare a meno dell’altra parte, della controparte non è stato semplice, perché ti mancava il cosiddetto “nemico”. Che fosse in torto o ragione, comunque ti mancava l’altra parte, quindi non è stato semplice bilanciare quello, ci sono voluti parecchi sforzi.
Devo dire che la cosa più strana è stata che i Monopoli non ci hanno dato l’intervista, che sono un ente pubblico, il che è bizzarro perché gli avremmo chiesto di come funzionava la legge e loro avrebbero potuto assolutamente dare la loro versione dei fatti. Magari avrebbero aggiunto qualcosa di interessante anche su loro due, sui due fratelli… però l’anno rifiutata per due anni. Quindi, i problemi produttivi sono stati parecchi. Poi, molta gente ha avuto paura del tema, di eventuali ritorsioni, ecc. Quindi, anche quello ci ha creato non pochi problemi produttivi. Simone Catania, il produttore, si è dovuto barcamenare in una serie di difficoltà notevoli.
Invece per quanto riguarda la distribuzione del film?
La distribuzione… non è stata semplice neanche quella. È difficile a priori e nel nostro caso anche di più perché, per esempio, molte televisioni straniere hanno dei vincoli per cui non possono mostrare i brand delle sigarette e, quindi, che se ne critichi o meno, è un problema. Questo è un problema che secondo me vincola il diritto di critica, perché se proprio non ne puoi parlare non puoi neanche criticarle ed è limitante.
Quindi, tutte le vendite che potremmo fare con un documentario diverso, in questo caso sono un po’ a rischio. E poi c’è qualcuno che all’inizio ci aveva seguito come distribuzione, poi si è tirato indietro per il fatto che loro due sono stati arrestati, hanno avuto paura di come potesse essere visto il documentario. Ma nel documentario non è che vogliamo fare un’apologia di questi due. Abbiamo voluto mantenerlo controverso e la gente finora l’ha sempre visto in questo modo, non ha mai detto che siamo di parte. Abbiamo raccontato i chiari e gli scuri.
Adesso, comunque, siamo in co-distribuzione tra Indyca, che è la nostra società, e I Wonder Picture che sta facendo un lavoro splendido perchè sta veramente distribuendo capillarmente il documentario che è poi la soluzione più adatta per i documentari: non uscire in tutta Italia contemporaneamente per una settimana, ma fare piccole uscite in cui si genera passaparola. Hai tempo di lavorarci sopra, trovare il tuo pubblico e riuscire a tenerlo per tanto tempo fuori, in modo da dare veramente la possibilità di vederlo. È ed la soluzione migliore quando non hai i mezzi per fare una campagna mediatica nazionale come i film major ovviamente.
Anche molti festival hanno avuto paura devo dire.
Eppure avete comunque conquistato due premi importanti, il premio Cinemaitaliano.info-CG Home Video al Festival dei Popoli e Prix de postproduction C-Side Productions pour le meilleur film suisse toutes sections confondues al Visions du Réel…
Sì sì, abbiamo vinto questi premi, poi siamo stati in tanti festival, a Helsinky, Tessalonica, Zagabria… però altri festival si sono spaventati per il tema, da com’era affrontato, ecc.
Ora siete tra i cinque documentari finalisti per il Premio DOC/IT… Come andrà?
Sì, siamo tra i cinque finalisti ed è già un onore essere tra quei nomi, è già un successone. Gli altri documentari sono bellissimi ed è bello esserci, anche perché questo ci aumenta la distribuzione, visto che saremo in una serie di città che non avremmo magari toccato con la nostra distribuzione. Sono stato a Parigi, andremo a Londra, a Berlino… a Noto, in Sicilia. È una cosa bellissima per noi, non ce lo aspettavamo assolutamente.
Poi è un’opera prima, quindi è andata veramente bene, sono contento e onoratissimo di essere con gli altri quattro finalisti, che sono quasi tutti nomi già consolidati. Sacro Gra, Stop the Pounding Heart, The Stone River, Dal Profondo… siamo in un’ottima compagnia e orgogliosi di esserci, vada come vada. Non vinceremo di sicuro, ma, vada come vada, siamo già contentissimi così.
Domanda di rito… ci sono già prossimi progetti in programma? Sempre documentario o anche film di finzione?
Mi piacerebbe continuare a fare entrambi. Continuare sul documentario perché mi sembra un’ottima palestra, un ottimo modo per mantenersi collegati al vero, saper riconoscere cosa è vero e cosa no. Però mi piacerebbe anche lavorare con gli attori, magari portandoti dietro quello che hai capito dal documentario. Perché il documentario dal punto di vista della narrazione è difficilissimo, perché devi crearla quasi in montaggio, mentre nei film di finzione la crei prima. Però, da un altro punto di vista… per esempio SmoKings fatto con gli attori avrebbe le potenziali per poter raccontare ciò in cui tu non c’eri, poterle ricostruire, come la gioventù dei fratelli Messina. Qui la puoi evocare, in quel caso la potresti mettere in scena. Quindi, ci sono degli aspetti interessanti che mi piacciono di entrambi e conto di fare entrambi. Se ci riesco, è quello l’obiettivo.
Riguardo a un nuovo progetto, in questo momento sono ancora troppo dentro SmoKings. Poi noi, come casa di produzione, stiamo producendo altri cinque documentari, quindi devo anche dedicarmi un po’ alla produzione. Devo produrre il film di Simone Catania che gireremo, credo, il prossimo anno. Sono abbastanza impegnato. Però adesso comincio a pensarci, dopo questa estate comincio a lavorare al prossimo.
Rita Russo
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