Gianluigi Perrone è un giovane produttore cinematografico, giornalista e sceneggiatore che lavora in Cina dal 2006. Attualmente vive a Pechino, dove collabora con alcune delle principali produzioni indipendenti locali. Tra queste, la Beijing Tiger Entertainment, con cui tra il 2011 e il 2012 ha realizzato Song of Silence, film di Zhuo Chen, dallo scorso 29 maggio nelle nostre sale. Lo avremmo voluto incontrare a 6 fusi orario da qui, in un buon ristorantino di ravioli della capitale cinese, Din Tai Fung, purtroppo ci siamo sentiti solo online. Ecco una sua introduzione al cinema sino-emergente, in Cina e nei suoi rapporti con il mercato e il pubblico italiano.
Song of Silence è l’opera prima di Zhuo Chen, artista e regista cinese emergente, presentato nel 2012 al Far East Film Fest di Udine. Com’è nato il suo interesse verso questo film?
Semplicemente Chen Zhuo è un ottimo regista. La mia collaborazione con Tiger Entertainment, la sua casa di produzione, è nata da una commistione di fortuna e attenta ricerca, da parte di entrambi. Io cercavo un buon team con cui lavorare e un regista di talento, lui un collaboratore straniero (sono l’unico “lao wai” a lavorare nella Tiger). La nostra collaborazione è iniziata in modo tradizionale, sono stato osservato per molto tempo prima di essere scelto ma una volta superato questo primo esame sono entrato in famiglia.
Il film è uscito nelle sale il 29 maggio, è stato difficile trovare un distributore italiano interessato?
Non particolarmente, sono andato direttamente da Giovanni Costantino. Sapevo dell’interesse di Distribuzione Indipendente per i film stranieri e con Song of Silence andavo tranquillo perché Dindi ha una sensibilità e una cultura cinematografica adatta per apprezzare l’opera. Avere nelle sale un film cinese del genere è un grande passo, non solo a livello culturale ma anche politico. Distribuzione Indipendente sta facendo un ottimo lavoro e questo è un grande passo. Sarebbe stupendo che chi di dovere se ne rendesse conto.
A differenza dei soliti prodotti cinematografici made in China, Song of Silence è un film intimo e realista. Definito da una complessa ricerca espressiva e incentrato su dei temi socialmente rilevanti, disabilità, aborto, crisi della struttura familiare.. Che riscontro si aspetta dal pubblico italiano? Crede che sia pronto ad accogliere questi nuovi lavori più sperimentali?
In generale il film è stato molto apprezzato all’estero, nella modalità in cui i film asiatici vengono accolti in occidente, ovvero con determinati limiti. L’Italia è particolarmente attenta all’Asia ma ricorrono miriadi di gap culturali che non ci permettono di comprendere le opere tout court. Per forza di cose, tra i libri e gli articoli che si spendono sul cinema asiatico in occidente, molti sono castronerie. Alcune realtà sono troppo lontane per assimilarle con le nostre logiche, soprattutto se parliamo della Cina mainlander, che sta ancora cercando la propria identità artistica. A Pechino fiorisce la musica sperimentale, il cinema ed è l’unica città al mondo con tre aree grandi quanto dei villaggi che ospitano gallerie d’arte. Come avviene ovunque ci sono anche tanti sprechi, opere meramente commerciali, ruffiane o brutte. Dipende da quale interesse ha un autore. Io e Zhuo, vogliamo fare qualcosa di buono, che possa unire gli spettatori di tutto il Mondo senza esagerazioni. La semplicità è la chiave di Song of Silence.
Ritiene che il linguaggio di Zhuo sia riuscito a veicolare il messaggio filmico nonostante le differenze culturali tra i nostri due paesi? Potrebbero esserci aspetti tipicamente cinesi che rischiano di passare inosservati o di essere fraintesi?
In generale quando parlo con un qualsiasi regista o produttore cinese lamenta che “siamo troppo diversi, non possiamo intenderci” ma la nostra stessa conversazione contraddice questa tesi. Rispetto ad altri film cinesi c’è poco in Song of Silence che non passa e rimane lost in translation. Se travisato potrebbe sembrare un film shock, che vuole sconvolgere publico e Governo cinese ma i temi sono altri. Indaga come il linguaggio e la comunicazione possano rendere fluidi tutti gli argomenti.
Sappiamo che il governo cinese è solito censurare i film dai contenuti più delicati, per usare un eufemismo, avete incontrato difficoltà nella produzione di Song of Silence?
Come dicevo, non è stato semplice avere il visto della censura cinese per Song of Silence, e il merito va all’altra executive, Wu Jing, che ha fatto un lavoro intelligente. Il risultato in tal senso è stato ottimo perché il film e il suo autore sono diventati popolari, e il prossimo film sarà ad alto budget. Vorrei fosse percepito che certi temi sensibili, in un paese dove non esiste neanche la parola sciopero, sono trattati in maniera coraggiosa. Anche se Song of Silence non vuole essere un film dissidente, un corrispettivo italiano potrebbe essere stato Diaz di Vicari, un film che pesta i piedi ai poteri alti e non voleva produrre nessuno.
Nell’ambito delle relazioni tra Cina e Italia che ruolo crede debba avere il cinema? Può essere un mezzo di comprensione e scambio culturale reciproco?
Un mercato interno così fiorente come quello cinese non ha certo bisogno di fondi dall’estero. Quello che definiamo Soft Power è l’interesse principale. Chiaramente per una questione promozionale, per essere considerati nei mercati che contano a livello storico, dal puntodi vista della Nazione, degli autori e delle produzioni in sé. Ci sono ancora dei seri problemi riguardo a ciò che si vuole e ciò che si può fare, valicabili con mestiere e pazienza. Qui bisogna letteralmente “essere acqua”, se posso citare Bruce Lee. Il suo esempio è quello giusto. Sto lavorando in tal senso, e da tempo, in diverse direzioni. Se le produzioni e le istituzioni italiane vogliono sfruttare la mia esperienza con l’atteggiamento giusto, io sono aperto ed è facile contattarmi. Altrimenti continuerò a fare da me. È una questione di volontà.
Da produttore, cosa pensa del cinema italiano indipendente? A confronto con quello cinese, quale considera più aperto a ricerca e sperimentazione?
Sono due universi completamente differenti. Indipendente in Cina è un aggettivo “cool”. In Italia indipendente vuol dire in genere “morto di fame” e autori ammantati di liberalismo sinistroide che dipendono dai fondi pubblici. Ovunque è possibile sperimentare e avere uno stage. Per fortuna i pazzi, che vogliono semplicemente girare un film come quelli che amano vedere al cinema (tra i quali ci sono anch’io), stanno combinando qualcosa. Bisogna essere capaci di fare un film, di promuoverlo e venderlo in un mercato che si rimpicciolisce sempre di più. Il consiglio che do è quello di non fare le cose da soli. Se noi tutti fossimo più uniti saremmo più grandi. Per fortuna anche in Italia ho un team che funziona e insieme abbiamo fatto ottime cose. Morituris, 2011, è uscito ovunque ed è diventato un caso per il discorso della censura, Ritual – Una storia psicomagica, 2013, mi ha permesso di lavorare con un mio mito personale, Alejandro Jodorowsky, e ha avuto questo mese un’ottima uscita nazionale. Oltre il Guado, 2013, di Lorenzo Bianchini ha finalmente fatto conoscere al Mondo un grande talento italiano, ed è attualmente in sala in Germania. Infine quest’anno sono stato felicissimo di far parte del progetto di Simone Scafidi, Eva Braun. Il film prende le mosse da Salò di Pasolini ma come una commedia satirica che si ispira all’Italia del Bunga Bunga. Dopo il successo al mercato di Cannes, mi auguro un esordio festivaliero degno di tale titolo, altrimenti strappo il passaporto.
Nell’attesa di un piatto di ravioli fumanti da Din Tai Fung…
Zelia Zbogar
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