Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la recensione

Il film diretto da Martin McDonagh e con protagonista Frances McDormand è un’opera dura, controversa ma al tempo stesso decisamente vera.

Presentato in anteprima alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (Premio Osella per la migliore sceneggiatura a Martin McDonagh) e poi al Toronto International Film Festival 2017 (Premio del pubblico), “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è vincitore di ben quattro Golden Globes come Miglior film drammatico, Miglior attrice in un film drammatico per Frances McDormand, Miglior attore non protagonista a Sam Rockwell e Miglior sceneggiatura per Martin McDonagh.

La storia si svolge come da titolo in Missouri, ma non c’è nulla di vero (infatti le riprese avvengono nella Carolina del Nord), se non nel voler raccontare con personaggi fittizi situazioni reali della vita e società americana.
Sono passati mesi dalla morte della figlia di Mildred Hayes, Angela, avvenuta dopo un terribile stupro, e non si è ancora trovato il colpevole.
La tormentata madre dà la colpa di tutto questo alla polizia locale, così decide di affittare tre manifesti pubblicitari decadenti appena fuori la cittadina, per ristrutturarli e disegnarci sopra a caratteri cubitali una scritta contro le istituzioni, in particolar modo lo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson).
Comincia dunque una lunga lotta di nervi tra Angela e gran parte di Ebbing, in particolar modo il violento e chiaramente razzista vicesceriffo Jason Dixon (Sam Rockwell).

Martin McDonagh in questo suo quarto lungometraggio (cinque anni dopo l’ultimo, 7 psicopatici) cerca di raccontare tante cose, come la questione razziale. Nonostante siamo nel terzo millennio molti ritengono ancora legittima la violenza e l’intolleranza nei confronti degli Afroamericani, come dimostrato nella scena dell’arrivo alla stazione di polizia di Abercrombie.
In un momento in cui va parecchio di moda abusare di termini come “radical chic” e “buonista”, si può tranquillamente affermare che “Tre manifesti ad Ebbing” non è assolutamente un film di questo tipo, o almeno così sembra perché, come già detto e come vedremo meglio in seguito, non è chiaro il vero messaggio che il regista ci vuole trasmettere.

La nostra protagonista, interpretata dalla moglie di Joel Coen, non è di certo un personaggio positivo nonostante sia la vittima di questa storia. Non fa sconti a nessuno per cercare di ottenere giustizia, anche a ragazzi minorenni. I suoi modi diretti e spesso violenti la fanno passare presto dalla parte del torto, soprattutto in relazione alla scena clou di Woody Harrelson, la più forte di tutto il lungometraggio.
Il suo sceriffo ci mostra alla perfezione l’altra faccia della medaglia della giustizia. Se tutti vorremmo averla in situazioni come questa, lui ci fa capire che a volte è davvero difficile ottenerla, ed è un bene che sia così, perché altrimenti bisognerebbe dire addio a libertà, civiltà e democrazia.
Meglio essere garantisti che giustizialisti. Forse non è questo il messaggio che voleva trasmetterci il film, ma il suo personaggio, accompagnato in Italia dalla bellissima voce di Roberto Pedicini, sembra voler far intendere questo.
Altra figura ben scritta è quella di Jason Dixon (doppiato da un altro doppiatore capace di trasmettere tante emozioni, cioè Riccardo Rossi) che ci dimostra che anche l’uomo più cattivo e ignorante può migliorare se aiutato nella giusta maniera.

Mildred invece sembra voler essere sempre la stessa fino alla fine, o forse no, difficile dirlo, visto quel finale, simbolo di un’opera criptica dall’inizio alla fine. Potremmo definirla una sorta di “Un borghese piccolo piccolo” all’Americana, forse da un certo punto di vista più istruttiva e meno “pericolosa”.

Un film da vedere assolutamente, anche per la presenza di altri grandi attori come Peter Dinklage, John Hawkes, Abbie Cornish e Caleb Landry Jones, che sarà disponibile in Italia a partire da giovedì 11 gennaio 2018.

Valerio Brandi

 

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