Un breve resoconto dal Berlinale 2015

Alcune considerazioni sulla 65esima edizione del Festival conclusosi a Berlino due giorni fa…

Si è aperta il 5 febbraio l’ultima edizione del festival internazionale del cinema di Berlino e, sin dai primi titoli annunciati, si prospettava una grande edizione.
Arrivato alla mattina mi si presenta davanti una coda di più di 150 persone, tutti accreditati in attesa di entrare nel famigerato palazzo a loro dedicato.
Dopo poco, fortuatamente, riesco ad entrare e ritiro il mio accredito per poi accingermi al box office dove ritiro i pochi biglietti rimasti disponibili.

Primo film che decido di vedere per la sezione “in competition” è “45 YEARS con C. Rampling e T. Courteney, entrambi premiati con il premio per la migliore interpretazione rispettivamente maschile e femminile. Devo ammettere che è stato il miglior inizio di festival. Un film di una meraviglia e di una freddezza tale che, orlata da una sceneggiatura fenomenale ed un cast sublime e ben diretto, lo rendono struggente.
Lo seguono altre grandi opere come “EVERY THING WILL BE FINE un normalissimo racconto drammatico portato all’ennesima potenza da Wenders che, grazie all’uso del 3D e ad una narrazione tesa e cupa che indossa i canoni del thriller, lo tramuta in un’esperienza cinematografica senza precedenti, un film in cui è difficile trovare difetti: dalla fotografia al montaggio, dalla colonna sonora alla sceneggiatura, tutto riposto in un equilibrio talmente perfetto fa far si che nessun reparto ecceda sull’altro (anche se in apparenza non può sembrare proprio così).
Interessante il nuovo film di Corbijn “Life, reduce da due film non molto riusciti, quali “A Most Wanted Man, “Control e “The American“, ma questa volta alle prese con un tema a lui molto caro: la fotografia (il regista è infatti uno dei più importanti fotografi contemporanei, conosciuto per le sue collaborazioni con gruppi del calibro degli U2), infatti il film narra del rapporto tra il fotografo D. Stock, divenuto uno dei fotografi del gruppo magnum, e l’attore James Dean, interpretati rispettivamente da Pattinson e Dehaan, ma purtroppo non basta un cast in stato grazia (con Pattinson sempre più mostruosamente bravo, ma già si era visto nel magistrale “The Rover” di Michod) a fare il film: l’opera infatti pecca laddove cadevano tutti gli altri film del regista: la narrazione, spesso lenta al punto tale da far sembrare il film ed i suoi realizzatori disinteressati al racconto, però questa volta riesce a rifarsi nella seconda parte, dove qualcosa di interessante accade e la sceneggiatura regala alcuni momenti davvero rimarchevoli.
Purtroppo, però, non è oro tutto quel che luccica e, come detto prima, alcuni titoli erano molto attesi dal pubblico, ma questa grande attesa è stata, forse, eccessivamente sovraccaricata. Partiamo dall’ultimo Herzog che ha presentato “Queen of the desert con Kidman, Franco e Pattinson. Qui l’autore spesso impegnato in documentari o opere di fiction con una struttura narrativa non conforme al concetto di linearità, si ritrova a dover gestire un racconto troppo “classico“, dove il suo stile narrativo è così imprigionato da non rendere giustizia alla sua ricerca della fusione tra uomo e natura, che è mostrato attraverso uno spietato e spropositato uso del drone ed una fotografia che purtroppo stona con la storyline.

Il punto più basso del festival lo si è toccato con “Knight of cups di Malick, grandissimo autore che ha mostrato il mondo attraverso i pensieri dei grandi filosofi con opere come The thin red line“, The new world o The tree of life“, tre CAPOLAVORI indiscutibili ma, se già con To the wonder poteva nascere il sospetto che Malick marciasse un po’ dentro alla sua autorialità, qui ne abbiamo la conferma: inquadrature di “Tree of life“ riprodotte in maniera identica (come quella dell’altalena o delle sequenze nel deserto che accompagnano entrambi i film). Un Bale inespressivo al punto da risultare quasi insopportabile. Pensieri già espressi nelle sue precedenti opere per poi sfociare in un finale di una banalità sconcertante. Insomma: siamo davanti ad un opera di un grande autore e, considerata la media dei film che escono oggi in sala, si può parlare comunque di un BEL film, però resta un gigantesca delusione.

Interessanti anche alcuni film presentati nella sezione generation (l’equivalente di Alice nelle città a Roma o al Festival di Giffoni) come Beira Mar o One e Two, quest’ultimo visto con un grande interesse in quanto fan del regista che recentemente abbiamo visto con il meraviglioso documentario “Rich Hill e alla direzione della fotografia di “You’re Next”. Un racconto che spazia tra il drammatico ed il fantasy, davvero ben fatto, con una narrazione fuori dagli schemi che dimostra ancora una volta quanto Berlino sia ben lontano dagli scempi come “Un Ponte Per Terabithia”.

Notevoli anche alcuni film presentati nella sezione “Forum“ che raccoglie opere sperimentali/indipendenti come “Queen of the earth di Perry o il tedesco “Superworld entrambe opere dotate di forte tensione.

Ma il miglior film del festival resta, ad opinione del sottoscritto, il russo Under the eletric cloud diretto dal figlio del compianto A. German che giusto due anni fa portò a Roma il capolavoro “Hard To Be A Good“; con questo film il figlio si dimostra una geniale cineasta capace di raccontare la società odierna in modo graffiante, scomodo e totalmente GENIALE. Tra qualche anno lo vedremo nelle scuole di cinema, speriamo…
Memorabile anche il mercato del cinema, a cui hanno accesso coloro con il badge mercato o professionale, un luogo di immense proporzioni in cui alloggiano gli stand di molti produttori e distributori con i quali puoi concludere accordi per realizzare o addirittura vendere un film già terminato.

Alessandro Bertoncini

 

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